Il testo del romanzo collettivo.

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Vista da così in alto, la campagna sembrava un immenso patchwork multicolore, con i campi arati che si alternavano ad ampie aree coltivate, in una variopinta geometria rettangolare.
Il vento soffiava teso, portando con sé il profumo del mondo giù in basso e spingendo veloci da est le nuvole cariche di pioggia. Macchie nere striate di grigio, che non parevano promettere niente di buono. Acqua, grandine, forse addirittura il primo twister della stagione.
L'anno appena trascorso era stato un vero disastro: il primo rilievo significativo era a centinaia di chilometri a nord, e non poteva offrire alcuna protezione contro la furia del vento che aveva flagellato senza pietà l'intera pianura, mandando letteralmente per aria un intera stagione di raccolto. Per non parlare delle case, delle scuole, dei granai, dei silos che non c’erano più, risucchiati e sbattuti in mille pezzi a miglia e miglia di distanza dalla rabbia capricciosa della natura. O di Dio in persona, con il suo enorme dito puntato sul terreno a tracciare linee a casaccio, come farebbe un bambino su una spianata di sabbia.
Pochissime, come sempre, erano state le vittime. Ogni fattoria possedeva un rifugio sotterraneo, che veniva raggiunto in meno di un minuto da tutti gli abitanti, sia che fosse giorno o notte fonda. Il prezzo da pagare per una sopravvivenza che tutti si ostinavano a chiamare quotidianità...
Le nuvole si erano fatte più vicine, ora, iniziando a coprire il sole. Il bimotore Cessna iniziò una elegante cabrata, riducendo contemporaneamente la quota, il muso puntato in direzione di una piccola pista con ai lati due immensi campi di cotone. Il piccolo aereo toccò il suolo con dolcezza, in un lieve stridìo di gomme, per poi dirigersi verso un grande fienile che fungeva da hangar. Una volta dentro, il rumore del motore si attutì per poi spegnersi del tutto, e l’aria fu piena soltanto del sottile sibilo del vento.
(Davide)


Philip rimase immobile a respirare l’aria che lo avvolgeva, la mano ancora stretta sulla cloche e gli occhi ancora chiusi dal momento in cui i motori si erano spenti. Lo sbalzo di adrenalina amplificava la ricettività dei suoi sensi, così da riuscire a captare ciascuna particella di cui l’aria era composta; sentiva il refrigerio dell’ossigeno e la pesantezza dell’anidride carbonica allo stesso modo. Ogni volta che atterrava riprovava quell’ebbrezza che raggiungeva talmente violenta l’apice della propria intensità, da lasciarlo poi riverso in un madido senso d’inadeguata debolezza.
Succedeva sempre dal giorno della prima esercitazione quando il capitano Wilson, serrando con forza la mano sul braccio del giovane allievo Philip Roth, disse: «Vedi ragazzo, se un giorno comincerai a credere che quel sudore freddo che ti s’incolla addosso ogni volta che le ruote toccano terra significa che le tue forze, il tuo coraggio e la tua concentrazione stanno venendo meno, ebbene figliolo, quel giorno sarà tanto meglio per te se deciderai di tornare a zappare la terra... ma bada bene, che ancor peggio di non ammettere a se stessi di avere paura c’è la totale incapacità di sentire sul proprio corpo quel freddo guanto umido».
Ed ora lo sentiva di nuovo, quel brivido che partiva dalla schiena, e come una miccia su un immaginario tracciato di benzina saliva a raggiungere il collo, che si contrasse in uno spasmo liberatorio.
Aprì gli occhi. Dalla cabina i rumori monopolizzati dal vento non si percepivano, ed oltre quell’involucro metallico Philip riusciva a scorgere le travi di legno scuro della capriata che sorreggeva il tetto. Rivide le grandi finestre e i fasci di luce che fendevano l’oscurità che riempiva l’ampio locale.
Sulla struttura era visibile chiaramente lo scorrere del tempo, là dove la vernice – originariamente di un grigio perlato – si era aperta come una ferita, lasciando intravedere il rosso vivo della ruggine. I vetri erano quasi tutti rotti. Alcuni li avevano sostituiti e trasmettevano un senso di palliativa tranquillità, ma della maggior parte non restavano che porzioni appuntite incassate nello stucco rinsecchito; frammenti sospesi come lame di minuscole ghigliottine.
Philip si sentì sospeso, il corpo immobile; l’unico movimento percepibile era quello ritmico del diaframma che scandiva il suo respiro. E dei suoi occhi inquieti che ora passavano dai manometri alle leve... occhi sgranati come se li vedesse per la prima volta. Si accorse della sua immagine che gli rimandava la luce riflessa sul vetro del parabrezza. Aveva un viso regolare, reso fortemente virile dagli zigomi marcati e le rughe profonde che lo solcavano non toglievano nulla a quel volto gentile. C’era, nella sua immagine matura di uomo di sessant'anni, un guizzo infantile che spiccava come un tassello sbagliato in un mosaico bizantino. Trapelava da una fossetta sotto il labbro inferiore che gli conferiva un’irresistibile aria imbronciata.
Esitò ancora, come se scendere da quell’abitacolo fosse una responsabilità troppo grande, un peso insostenibile. Sapeva benissimo che una volta aperto lo sportello sarebbe stato investito da una bufera con la quale non era abituato a combattere... quella delle sue emozioni, dalle quali – nonostante tutto – non se la sentiva più di scappare. Quel viaggio era frutto di un desiderio forte, sanguigno: rinunciare ad esso avrebbe significato rinunciare inevitabilmente a una parte di se stesso.
Fu mentre appoggiò i piedi al suolo che una folata di aria tiepida trasportò odore di terra nera e fertile, l’odore delle bacche di cotone e dei fiori di camelia, di miele e di grano, di bosco e di fiume. Per uscire doveva passare attraverso il grande portone di lamiera scorrevole. Giunto sulla soglia ci mise un attimo ad abituarsi alla luce, poi tutto fu invaso dai colori della sua terra.
Era ritornato in Alabama, Philip era ritornato a casa. La sedia a dondolo era stata sistemata di recente e, forse per quella necessaria manomissione, incespicava ogni tanto con un fastidioso scricchiolio.
Felipe teneva il sigaro tra il pollice e l'indice callosi, sospeso all'altezza del suo naso camuso. Osservava la combustione del tabacco che sfrigolava tra una lunga boccata e l’altra, mentre si dondolava facendo leva sul piede. Aveva uno strano modo di fumare, come se entrasse in uno stato di trance con gli occhi fissi, leggermente dilatati e la bocca contratta in un sogghigno che lasciava intravedere il giallo dei denti, reso madreperla dal contrasto con la sua lucida pelle nera.
Non c’era niente che andava in quel pomeriggio in cui il cielo sembrava un assaggio d’inferno. Come ogni volta in cui la natura manifestava i suoi maledetti progetti Felipe lanciava imprecazioni nel suo muto turpiloquio, in una sorta di sfida fra se stesso e la madre terra. Fu distratto da un rumore in sottofondo. Un ronzio lontano si faceva a poco a poco più nitido. Alzando pigramente gli occhi intravide tra la tettoia del pergolato e la linea d’orizzonte una macchia scura che si avvicinava, ingrandendosi di secondo in secondo. «Chi diamine lo cavalcava il cielo con un tempo del genere!» pensò scocciato d’essere stato distolto da quell’ozioso inveire. Avvertiva tuttavia una strana inquietudine, un senso di costrizione al petto mentre socchiudeva gli occhi per mettere meglio a fuoco il velivolo che scendeva di quota, puntando sicuro alla sua pista.
L’aereo sembrava essere sospeso da una forza non convenzionale, come se coda, ali e fusoliera fossero sostenuti con dei fili mossi da un abile burattinaio invisibile. C’era in quel modo di planare così assolutamente discreto e – allo stesso tempo – spettacolare qualcosa di fortemente familiare.
Si fermò con tutto il corpo proteso in avanti, aggrappato con entrambe le mani ai braccioli, mentre avvertiva l’inquietudine trasformarsi in un vero e proprio morso al cuore; conosceva solo una persona capace di librarsi in quel modo nel cielo flagellato dal vento, ed era una persona che non vedeva da molto, molto tempo.
(Manuela)
progetto romanzo collettivo